L'accoglienza
Arrivati al villaggio
(Sara) Arrivati finalmente a destinazione, l’essere accolti dalla gente del villaggio con canti e balli ha cancellato in un attimo la fatica del viaggio e le preoccupazioni.
(Leandra) Dopo tante peripezie arriviamo al villaggio. Lì, ad accoglierci, la gente del luogo che suona e canta per noi davanti la nostra casa. Ricordo la gente che veniva a salutarci e ci ripeteva la parola “karibu”, “benvenuti!”.
(Andrea) E’ mattino, sono ancora dentro il taxi. Mi guardo intorno un po’ insonnolita. I soliti visi ormai familiari dei miei compagni, il tassinaro, la pioggia che ormai ci accompagna dal primo giorno in Africa! Mi tiro su! Eccomi arrivata al villaggio, troppo diverso da come me lo ero immaginato. Davanti casa il gruppo folkloristico che ci accoglie con una gran festa! Si scattano le prime foto, si girano i primi video incuriositi dal “nuovo”, si fanno le presentazioni e arriva il primo approccio concreto con la lingua swahili. Mi sistemo in casa, scelgo il mio letto, cerco di prendere confidenza con ciò e con chi mi sta intorno. Non è facile ma mi butto.
(Diego) Arrivato al villaggio è palpabile l’ospitalità, percepibile facilmente dall’accoglienza ricevuta e dall’espressione “Karibu sana!” (benvenuto!), espressione che si ripeterà ogni volta che varcherò la soglia di una qualsiasi abitazione.
(Nicola) Arrivati al villaggio e dopo esserci sistemati in casa, andiamo a esplorare un po’ i dintorni. La composizione del paesaggio è un insieme di elementi a me del tutto nuovi: terra rossa, strade non asfaltate, casette con tetti in lamiera o paglia, piccole contrade composte da poche case e collegate tra loro da enormi spazi. Le cose che mi colpiscono subito sono tante, in particolare la presenza di bambini, anche molto piccoli, che giocano dappertutto. Un gruppetto gioca con una bambola: un legnetto che fa da busto e un ciuffo di ramoscelli legati fra loro a mo’ di capelli. Se gli stessi materiali fossero stati dati a un nostro bambino, forse non avrebbe avuto lo stesso ingegno nel creare quel giocattolo.
(Cristina) Quando sono arrivata al villaggio, era notte, tutto dormiva. La percezione di ogni cosa era ridotta però ricordo benissimo la luna e la sua grande e bianca luce in mezzo alle nuvole, riusciva ad illuminare la stradina piena di buche, una luce molto più forte dei deboli fari della motocicletta che ci avrebbe condotti a destinazione. Ricordo bene anche il silenzio interrotto solo da un milione di pensieri che giravano e facevano rumore nella mia testa. Tutto è stato immediatamente diverso dalla città, una strana aria familiare, come di casa, le sensazioni che ho provato si sono accavallate da subito (dal canto del gallo la mattina, che rimarrà in assoluto una delle cose che più mancherà, fondamentale per l’inizio di ogni giorno, armonioso, una sveglia senza ticchettio, un canto che si modella perfettamente con tutto quello che ti circonda).
(Gabriella) Altri sensi ti escono fuori e tra tutti spadroneggia l’istinto che annulla la ragione. E così il primo giorno ti siedi a tavolino e ti scrivi penna e carta un bel discorsetto strutturato (introduzione, svolgimento, conclusione) di ringraziamento per l’accoglienza e, nel tuo senso di estraneità artefatta, credi di aver fatto il tuo dovere, nel meccanismo tutto razionale di galateo: tu dai il benvenuto a me, sei garbato, io do il ringraziamento a te, sono garbata. E invece…
(Valentina) Quattordici ore e poco più di viaggio. La fermata arriva per me improvvisa: ho perso la cognizione del tempo. Tutto avviene velocemente: scendiamo dal pullman e ci precipitiamo, spinti dalla calca, verso il bagagliaio per riprendere i nostri zaini. Non si vede nulla intorno, è buio ovunque, con l’eccezione di uno spiazzo illuminato, e lì tanta gente di cui faccio fatica a distinguere i volti. Ci sono anche delle motociclette, i pikipiki. Ci circondano: ci accolgono, ci salutano, qualcuno prende il mio zaino. Mi sento frastornata. Credo saranno loro a condurci al villaggio, a cavallo di un pikipiki! Non mi rendo ben conto di quello che sta accadendo, mi sembra di trovarmi in uno stato onirico; colpa della sonnolenza e dell’oscurità. Guardo negli occhi i miei compagni: sembrano tranquilli, i loro sguardi tradiscono un po’ di stanchezza ma non sembrano storditi quanto me, brillano di gioia e di euforia. Io, invece, sento e vedo nel contrasto di luce e buio tutta l’incertezza, il brivido di un proseguimento ignoto.
(Stefania) Camminiamo per un po’, quando improvvisamente rimango letteralmente di stucco! La strada è interrotta da tante persone e la musica ci chiama. Non credevo fosse lì il posto in cui ci dovevamo fermare. Al centro, sul lato sinistro c’è un tavolo con quattro sedie, ai lati alcune panchette di legno e, sparsi, i vari gruppi che già ballano sotto i colpi di un grande tamburo sorretto da tronchi color bianco e marrone. Ci fanno sedere. Due donne iniziano a servirci il cibo. Riso bianco, sughetto di pomodoro, carne e contorno di verdure. Mia nonna mi dice sempre che ormai la carne o la verdura hanno un sapore scialbo. Beh, ora la capisco, eccome: ho l’acquolina in bocca solo al pensiero di questa pietanza. Ha tutto un sapore naturale, antico e casareccio e mangiando il riso si sente il profumo di terra, di paglia.