Strade africane
Andando verso...
(Gabriella) La strada per l’Africa è un sentiero di fantasia, di ritrovamento di cianfrusaglie lasciate in soffitta che quando ero bambina mi raccontavano tutto quello che era necessario sapere sul mondo, di paura di libertà. Sì, paura. Perché la libertà costa, va a braccetto con la rinuncia, con l’autocritica, con la rinascita, con l’accettazione dei limiti, con la lotta contro un inconscio che non è stato rimpolpato mica ieri. È un lavoro di anni, di una vita intera che, in questa strada per l’Africa, inizia a fare crepe da tutte le parti.
(Nicola) Studio ingegneria e una delle cose che mi sono state insegnate è quella di riuscire a sfruttare al massimo le risorse che si hanno a disposizione. Siamo in autobus, nel lungo viaggio che ci porterà a Iringa e noto che oltre all’autista e la “hostess” ci sono altre due persone dell’azienda di autotrasporti, ma che di lavoro ne stanno facendo gran poco. Li guardo e li vedo come costi inutili. Persone che per il bilancio della ditta di trasporti andavano licenziate e invece sono lì. Arrivati in città ci sistemiamo e andiamo a cenare in un piccolo ristorantino davanti la Guest House. Mangiamo, rigorosamente con le mani, un buonissimo pollo con le patatine. Arriva il conto diviso in due: cibo da una parte e bere dall’altro. Faccio la somma, preparo i soldi e…e mi dicono che il bere va pagato al negozio accanto. Lì si mangia e basta. Non capisco subito. Mi faccio spiegare del perché: facendo così due attività commerciali riescono a sfamare due famiglie, invece di arricchirne una sola. Allora capisco anche del personale dell’autobus.
(Stefania). Il corridoio che mi permette di andare avanti in questa esperienza è la lunga strada percorsa con i miei compagni di viaggio da Dar-Es-Salaam al villaggio. Occorre armarsi di pazienza perché è un corridoio molto lungo, per percorrerlo ci vuole circa un giorno con il pullman. Dai finestrini si ammirano i paesaggi e la vita dei tanzaniani.
(Marzia). Seduta su un mezzo bizzarro, colorato e un po’ puzzolente vengo subito rapita da ciò che mi aspetta fuori il finestrino. Le ore passano e non mi accorgo di nulla. Nessun particolare può essere tralasciato, qualunque cosa è nuova e sembra importante. Cerco di cogliere ogni minuzia e di non perdermi nulla.
(Federica) Sulla lunga strada verso il villaggio, oltrepassando città, mercati, villaggi, savane verdi, i baobab sembrano distendersi e allungarsi in balletti e torsioni, forti e spogli sulla terra rossa. L’aria sembra diversa, pregna di un odore che prima infastidisce ma che poi inizia a mostrarsi in tutta la sua varietà, la luce appare accecante e il tempo senza coordinate.
(Silvia). Ogni punto di sosta, arrivo o partenza è un’esplosione di voci e colori. Da un autobus ti può capitare di comprare di tutto, pollo già cotto e tagliato, fagottini con carne e patate, uova, pomodori, calze, mutande, canottiere e ancora, specchietti, forbicine, tagliaunghie, collane, orecchini, scarpe, anacardi, noccioline, sacchetti di cipolle, ogni tipo di frutta. La lista potrebbe essere quasi infinita. Appena la velocità inizia a diminuire i finestrini si riempiono di volti, mani ed oggetti, non troppo insistenti ma attenti ad ogni minimo cenno. Sanno quando è il momento di arrivare e provare ancora in un altro finestrino o quando invece è opportuno spostarsi e velocemente inseguire un altro mezzo con altri possibili acquirenti.
(Massimo). Sono decine i bus che vedo sfrecciare incontrastati lungo questo percorso, dalla mattina fino al nostro arrivo a destinazione, carichi di passeggeri, merci ed animali. La varietà dei colori, delle scritte e delle rappresentazioni grafiche sulle fiancate di questi giganti della strada esprimono la fantasia di artisti e disegnatori locali al servizio delle varie compagnie di trasporto. Il loro fine è attirare clienti mostrando un’apparente sontuosità in quei mezzi che, a conti fatti, non garantiscono niente di meglio, l’uno dall’altro, per ciò che riguarda comodità, sicurezza stradale e puntualità. Lungo queste interminabili carovane, sul lato posteriore della carrozzeria di ogni pullman, una scritta richiama la benevolenza di un’entità superiore, un dio qualunque o il dollaro: “In god we trust!”.
(Cristina) Lo spostamento tra un posto e l’altro, è un viaggio. Un autobus pieno come un barattolo di palline colorate. I diversi colori si distinguono per i vestiti, per le borse di ognuno, colme sempre di qualcosa: pomodori, patate, mango, anche qualche gallina impaurita. I sedili sono stretti e odorano di lunghi tragitti. L’autista, una volta occupato il suo posto, raramente concede una sosta ma non manca occasione per poter comprare qualcosa durante le brevi fermate. In quei momenti se lo sguardo va oltre il finestrino, si può vedere uno sciame di persone, le più svariate che tentano di vendere cibo locale e bevande. L’impressione è quella di un’unica voce a più tonalità che ripete nello stesso momento più parole, che si tratti di qualcosa da vendere o un prezzo. L’approccio è diretto, forse con un po’ di invadenza però se si riflette, chissà da quanto tempo aspettano l’arrivo di un autobus, quanti ne vedono passare e quanti altri ancora ne aspetteranno per giornate intere con i loro cestini in testa.
(Sara) Siamo partiti, ma già dopo solo metà viaggio, siamo rimasti “a piedi” e abbiamo atteso per ore un pullman che ci portasse a destinazione. L’ironia iniziale dell’accaduto si è trasformata nella paura di non arrivare mai alla meta, un po’ per le pessime condizioni del viaggio e la guida dell’autista, un po’ per la stanchezza accumulata, tutto ciò ha decisamente segnato il mio primo momento di sconforto. In quel tragitto alquanto devastante, mi ricordo ancora il mio vicino di posto, che pur non parlando inglese, con un semplice sorriso ha saputo rassicurare il mio animo ormai impaurito.
(Diego) Muovendo verso l’entroterra ti accorgi di come cambia il paesaggio: dall’oceano Indiano all’altopiano di Iringa, passando tramite la catena montuosa dei monti Uluguru, attraversando il Mikumi e le infinite distese di baobab che coprono le colline, fino ad arrivare dove la terra inizia a diventare rossa.
(Rosario) Dodici ore di autobus mi aspettano per arrivare al villaggio. Sono seduto in quella piazza ad aspettare l’autobus con molta ansia. C’è chi corre, chi, invece, con dei sacchi pieni sulla testa procede lentamente. Ecco l’autobus: mi siedo vicino al finestrino, non mi voglio far sfuggire niente di ciò che mi circonda. C’è molto caos sulla strada che attraversa la savana. Stupendo: ci sono scimpanzé, elefanti, zebre. Una leonessa ci passa davanti e tra i passeggeri esplode un urlo di gioia.
(Rosario) Durante il viaggio ci vengono serviti una bevanda, una merenda e anche altro cibo. L’autobus fa poche brevi fermate: c’è chi si mette dietro a un albero, chi dietro ai cespugli. Le donne con gonne larghe si abbassano senza vergogna per fare pipì.
(Valentina) Una fermata durante il tragitto in pullman. Sembrano tramutarsi in tanti fiori variopinti le donne così avvolte nei loro kanga per custodire la propria intimità, qua e là, dal lato della strada a loro riservata, accovacciate in mezzo ai cespugli. Una sosta necessaria, prima di riprendere il lungo cammino. Ed io mi sento ancor più bianca e nuda.
(Rosario) Un colpo di clacson e via, si riparte. Dal finestrino vedo la terra rossa: sembra fuoco; intorno ci sono poche case e un paesaggio fantastico. Scende la notte con il suo fascino. Chiudo un po’ gli occhi e comincio a sentire un odore: l’odore delle persone che sono lì con me. Io chiamo “odore” quello che forse non è tale altri, ma perché? Invece, io credo sia l’odore vero della pelle, quello che noi nascondiamo con i deodoranti. Fuori è buio pesto, i fari dell’autobus sembrano spenti. Eccoci arrivati: questa sera si dorme in hotel, domani un po’ di spesa al mercato e poi via, in taxi verso il villaggio.