Il villaggio
Luoghi, persone, comunità
(Nicola) La parte del villaggio che preferisco è quella dove c’è la macelleria. E’ una piccola capanna con un tavolino per il taglio della carne e due panchine dove c’è sempre seduta qualche persona che chiacchera e mangia degli ottimi spiedini fritti. È un piccolo punto di ritrovo. La varietà della carne disponibile non è paragonabile ai nostri supermercati: il giovedì si uccide il maiale, molto molto magro, e lo si deve far bastare per tutto il villaggio e per tutta la settimana. Se finisce prima, nessuno mangia carne. Ad una trentina di metri di distanza c’è il bazar, una stanzetta piena di merci in cui nessun compratore può entrare. Il titolare si affaccia alla finestra e serve. Anche qui non bisogna esagerare con gli acquisti, in quanto i rifornimenti per certe merci non arrivano tutti i giorni e per non lasciare senza gli altri, si prende poca roba per volta. Questo vale soprattutto per la verdura.
(Massimo). Stamani il villaggio era vuoto o almeno per strada si mostrava così, privo del solito via vai di gente tra i sentieri, il boschetto, il fiume. Sarà che all’arrivo delle prime piogge corrispondono tante ore di lavoro ai campi. Magari ci si alza prima del dovuto, alle sei si è già a lavoro, ci si sposta con tanto di fagotto: farina di mais, qualche litro d’acqua, una vecchia pentola di fabbricazione keniota, ed un mestolo di legno. Da mais ed acqua si ricava l’ugali, la tradizionale polenta tanzaniana della quale la gente del posto va tanto fiera. Sembra non esistere altro per adesso, la pioggia non aspetta più di cadere. Si comincia a coltivare ed impostare la nuova annata. Ed è con questo spirito che il villaggio si sveglia per darmi il suo saluto, così denso e tangibile che ai miei occhi diviene familiare e caloroso.
(Andrea). Ciò che mi sono accorto durante la permanenza al villaggio è che esiste davvero una differente concezione della vita in queste zone rurali, che noi non possiamo afferrare né tanto meno sfiorare, imperniati come siamo delle nostre certezze, dalle abitudini e dalle comodità che il consumismo ha scaraventato nelle nostre vite.
(Davide) Qui l’africano si adatta, ci vive e ci trascorre spesso un’intera vita, con la zappa in mano si arrangia alle difficoltà di tutti i giorni inventandosi ogni modo per rendere la propria vita un minimo più decente o spesso solo per renderla vita, trasformare la fatica nel pane che tutti i giorni diventerà la fatica del giorno seguente. L’impervia esistenza dell’agricoltore, professione alla quale sono dediti otto africani su dieci, risulta spesso insufficiente alla sua riproduzione ed allora ci si barcamena tra migliaia di piccole cose da fare, alla ricerca di una possibilità di cambiamento.
(Marco). Trasportare un sacco con cento chili di mais tramite una bicicletta od un carrello a trazione umana per decine e decine di chilometri verso il mercato più vicino… Sudore e fatica per poche monete in più rispetto a quante se ne guadagnerebbero vendendo il prodotto al villaggio, dimostrano l’enorme propensione che l’africano mostra nei confronti del riscatto proprio e della propria comunità. Allo stesso modo le donne che preparano dolcetti la domenica, cambiando (un minimo) le condizioni delle loro misere finanze, abbelliscono l’uscita dalla chiesa per bambini e ragazzi di campagna. Ecco che allora basterebbe poco se una cultura come quella africana veicolasse la propria tradizione aprendosi innanzitutto a se stessa e per se stessa riproducendosi.
(Valentina) Così, anche la domenica a Nambehe è un’apoteosi di tinte iridescenti! C’è un piccolo mercatino all’uscita della chiesa, allestito da alcune donne che vendono e comprano prodotti della propria terra e dolci. Lì, tutto è un brulicare di stoffe, è una danza di arcobaleni indossati, che si muovono lungo il vialetto, sotto gli alberi alti: cuciti ad arte in camicie e abiti, o solo avvolte a guisa di gonne, stole e copricapi. Fantasie di foglie, fiori o girasoli, animali stilizzati e geometrie, su sfondi netti, contrastanti, tonalità di aranci e gialli, marroni e verdi, blu e rossi, rosa e viola o bianchi; abbinamenti audaci o casuali, mai anonimi. Ci sono frasi in swahili su alcune di quelle vesti; majina che riportano, lungo gli orli, detti, proverbi, frasi augurali o ammonimenti, patrimonio di un sapere tradizionale. Una di queste dice: ‘Kila mmoja kwa matendo yake atalipwa’, ‘Ciascuno sarà ricompensato per le sue azioni’.
(Stefania) L’angolo della cucina che preferisco è la dispensa, dove si trovano tutti gli ingredienti necessari per buone pietanze tanzaniane. Per me la dispensa è il negozio di Kosma… Ma chi è Kosma? E’ una donna molto bella che ti accoglie sempre con un bel sorriso e con tanta pazienza anche quando arrivano dei nuovi italiani che conoscono poco lo swahili e hanno una pronuncia terribile. Il figlio di Kosma è Mapendo che significa amore ed è veramente un bambino adorabile e creativo. Il punto vendita di Kosma è un bazar con scaffali parzialmente vuoti, aperto al pubblico senza orari precisi, senza porta, comunicante con i clienti attraverso una finestra con sbarre di ferro.
(Paola). La nostra sala a pranzo non ha una fissa dimora, è estremamente mobile perché l’accoglienza e l’ospitalità nei confronti di Terra e Popoli e degli amici dell’associazione è indescrivibile. Un giorno si mangia a scuola, il giorno dopo si cena ad un matrimonio di una giovane coppia del villaggio e un’altra volta a casa di un amico.
(Sara) Al villaggio ciò che conta è festeggiare, cantare, ballare e soprattutto ridere in compagnia.
(Nicola) Cominciando a conoscere un po’ la zona, mi domando perché il villaggio abbia una strana urbanizzazione. Non c’è un centro dove attorno si concentra tutta la zona residenziale e un’area dedicata solamente all’agricoltura, che secondo me è la cosa più logica per lo sviluppo e l’accesso ai servizi. Mi spiegano che soprattutto nei villaggi dove praticamente mancano i mezzi di trasporto, averci il terreno vicino casa porta a non dover percorrere, ogni giorno, notevoli distanze a piedi per andare a lavoro. In fondo coltivare il proprio campo è l’attività fondamentale della giornata e sono poche le volte che si spostano al centro del villaggio. Anche in questo caso, tutte le teorie che mi hanno insegnato a lezione non sono direttamente applicabili, perché queste non tengono conto del fattore umano, sociale e culturale.
(Margherita) Ho scoperto un posto in cui non esiste il verbo avere ma solo essere con, e questo mi ha commossa più di quanto non mi abbia in seguito fatta riflettere su derive post-comuniste o di socialismo reale, e forse anche più di quando mi hanno detto per la prima volta pole dopo essere inciampata col mio secchio da dieci litri di acqua sulla testa, spettacolo che avrebbe strappato a un ghigno onanistico a chiunque, nell’occidente sviluppato.
(Gabriella) Ti ritrovi già innamorata di bambini che non somigliano agli altri bambini, che condividono tra loro la propria libertà, non costretti a relegarla in qualche ora schematizzata di scuola sotto la sorveglianza asfissiante di qualcuno. Sono una comunità a parte, vivono tra di loro, nel mondo dei bambini, si gestiscono in libertà secondo logiche interne per cui il più grande – che magari ha cinque anni – bada al più piccolo – che magari ne ha tre. Gli adulti vivono ai margini di questo universo, punti di riferimento e biblioteche viventi. In questo modo, i bambini risolvono tra loro le piccole beghe, esplorano il mondo da subito in modo diretto, si collocano nell’universo dell’esistente da protagonisti.
(Caterina) Il tuo posto lì te lo gridano gli alberi che crescono vividi ribelli magnifici padroni arredati da qualche casupola sparpagliata, la terra che guardata dalla collina pare senza confini, a ricordarti che tu non sei nulla, se non un pellegrino cui è regalato uno spicchio di luce, la natura che, insieme al sole e alla pioggia, decide cosa, quando e quanto.
(Valentina) Sto per raggiungere la sommità della collina. Non è molto alta, eppure, chissà perché, la chiamano mlima, la montagna. Il sentiero è già finito da un pezzo, mi arrampico tra le ultime rocce: la maggior parte di esse è grigia, con macchie rossastre; molte sono ricoperte da strani ciuffi dorati mossi dal vento che ricordano il buffo e soffice mantello degli shitzu; altre somigliano a scogli fioriti, con squamette argentee, forse piccoli funghi, tra licheni verdastri. Sono arrivata sotto la croce di latta che segna la cima. Sollevo lo sguardo: davanti a me un orizzonte lontano e indefinito. Ovunque mi giri i miei occhi si perdono, abbraccio idealmente tutto il villaggio in un respiro profondo. Oltre continua l’altipiano. Vedo disseminate tra gli alberi molte case, alcune di fango e con tetti in paglia, altre di mattoni con tetti in lamiera, la grande chiesa, campi coltivati, stradine rosse che si diramano e una, più netta e visibile delle altre, che porta lontano; da un lato due colline dall’aspetto curioso, dall’altro un monte ricoperto e circondato da boschi di miombo; là vivono molte scimmie, come quella che mama Chinoga, una anziana del villaggio, qualche giorno fa ha cacciato per tenerla lontana dai girasoli.
(Chiara) Non ho nulla della grazia delle donne africane di cui ammiro l’armonia delle membra e dei movimenti e l’elegante andatura; con forza e paziente compostezza, sono capaci di trasportare pesi ben più onerosi sul capo e, contemporaneamente, sostenerne altri con le mani, talora portando anche, infagottato sulle spalle, uno dei loro figli più piccoli. Persino i bambini ne sono capaci.
(Silvia) Contro un cielo di un intenso celeste, si estendono decine e decine di basse piantine di ulezi, disposte in lunghi filari; qua e là piante di manioca, in fondo un campo di fagioli, le cui fronde verdeggianti filtrano i raggi, creando giochi di ombre e luce dai riflessi smeraldi. Il tutto, sopra un letto di terra rubiconda.
(Alessia) Quassù, in collina, ho lasciato una parte di me. Due falchi planano, si lasciano cullare dal vento, danzando leggeri nel cielo. Il sole visibile solo in parte è nascosto dalle nuvole e capita spesso che al tramonto si crei l’attesa di vedere-non vedere il suo nascondersi, così grande e rosso, tra le nuvole passanti, facendoci credere che non ci sia già più, riapparendo poi ancora più rosso, ancora più intenso per regalarci attimi del suo spettacolo.